Adozione, una rinascita
Tra le mani mi palpitano le sue piume,
il gomitolo della sua carne viva.
E’ venuto a fermarsi nel mio grembo
E io non so che fare del suo smarrimento.
Juana Castro
Ero già nato ma di una nascita
sospesa ero in attesa
isola nell’isola lentissima
ruota di giorni bianchi
ombre in silenzio mi nutrivano
con latte di speranza ma sentivo
già il fragore del fiume il gridoamore
che a me risaliva controcorrente
il viso raggiante si avvicinava
che riconoscevo
il sussulto del seno le braccia a farmi culla
poi l’ora memorabile lo scampanio
la sua voce incredula dal corridoio
il cuore impazzito all’unisono con il mio
toccarci una deflagrazione
ripercorro il cammino del parto
sul petto la conchiglia del riconoscimento
mi corre acquaviva intorno come un destino
ri-nasco in sangue rinnovato
riconosco le anse materne del riparo
di padre il porto calmo.
Così a me s’apre
questa porta d’aprile buona sorte
nella casa che canta di pienezza
qui le radici
da qui muovere il cammino.
Quale ora
Sai,
non ho mai capito
quale fosse l’ora, quella giusta,
forse verso sera,
dell’insinuarsi del sonno
denso di tramonto,
del sigillarsi del giorno
ai chiodi di lavanda appesa
alle pareti mute, pietrificate
come tombe grigie sopra i loro Quale ora
Sai,
non ho mai capito
quale fosse l’ora, quella giusta,
forse verso sera
dell’insinuarsi del sonno
denso di tramonto
del sigillarsi del giorno
ai chiodi di lavanda appesa
alle pareti mute, pietrificate
come tombe grigie sopra tutti i segreti
….solo una parola mamma...-
Se ne andava il fiume
portandosi via le cose
le voci
biforcando sul sentiero d’acqua,
immortalando il canto
languido al primo sole.
E c’era il nostro niente da dire
annodato di filo spinato in gola
nella difficile stagione
della neve,
minuscoli passeri in fila
in cerca di briciole e
d’altri compagni sepolti
ossa rotte
ali spezzate
piccole piume sparse.
Il cuore fradicio.
Le pescolle – Le pozzanghere
Le pescolle, a pialle a sassate, pàrene sbruffi de fontane granne,
e i fjoli stanne a pistaccià sa le scarpe,
sa le mà, e no’ je basta tutte quante
‘nzaccherate. No’ cercamie co’ le canne
le covate de le rane,
setacciamie filo filo, bocca avanti,
l’acque giacce prudigiose.
C’era caso che per caso
la natura se muvea, qualchicò che ce bastaa
a facce urlà cum’ i bardasci, quanno drento
de la fanga l’universo lo capimie ‘ntun mumento:
‘na mucchiada de cudine fine fine, le madonne
de le madri nun appena se ‘ccorgea.
‘Ntel zilenzio se sentia guasi un senzo de rimorso,
c’emie fuga cum’i granni,
che se ‘ggiustane i calzoni e non se volta a guardasse intorno.
Le pozzanghere, a prenderle a sassate
sembrano schizzi di fontane grandi,
e i bambini stanno a pestarle con le scarpe,
con le mani, e non basta che le abbiano tutte quante
insudiciate. Noi cercavamo con le canne
le figliate delle rane,
setacciavamo con attenzione, supini,
le acque gelide prodigiose.
Avveniva che per caso
la natura si muoveva, qualcosa che ci bastava
a farci urlare come i bambini, quando dentro
al fango l’universo lo capivamo in un momento:
un mucchio di codine piccole piccole, le imprecazioni
delle madri non appena si rendevano conto.
Nel silenzio si sentiva quasi un senso di rimorso,
avevamo fretta come i grandi,
che si aggiustano i pantaloni e non si voltano a guardarsi attorno.
Noi – i privilegiati
quelli che vedranno
forse la fine
pur non volendo essere
profeti
noi che vedemmo in silenzio
la fine dei nostri cari
e quella degli amori quotidiani
-di noi soli-
con egoismo profondo
la Terra si riprende tutto
risalgono le acque
- dio non riposa più nell’angolo –
ha di nuovo alzato la mano
michelangiolesca sulla creatura
diventeremo ceneri di vulcano
larve di acqua
fino alla quiete
saremo fatti di vento
e di attesa
Non ho saputo tessere parole
Ora che l’equinozio di settembre
batte alle porte, cara,
e spegne fuochi che credemmo eterni,
arde ancora una fiamma che non cede
al volgere dei cosmi, alle stagioni:
è la fiamma tenace che mi avvolse
con l’abbagliante sfolgorio del sogno;
fuoco che brucia ma che non fa male,
se ad accenderlo furono i tuoi occhi
con i falò appiccati dentro al cuore.
Stregone d’artifici e di malie,
cantare avrei voluto il tuo profilo,
serrare la tua luce in uno scrigno,
farne poesia, patto d’amore.
Eppure
non ho saputo tessere parole,
non ho saputo disegnare rotte
per l’aquilone che cercava il vento.
E sì che avevo fili d’oro, spole
imprendibili, come le comete
nelle notti d’argento a San Lorenzo.
Maldestro suonatore della cetra,
ora vago smarrito,
trasognato clochard senza canzoni,
nello zaino le note mie randagie,
le mie parole logore e sdrucite.
Ora lo so che mai potrò scalare
la montagna di sole e di cristallo
con in cima le galassie del sogno.
Lo so che dalla luce dei tuoi occhi
mi separa una distanza di stelle.
Si annuncia spesso un silenzio di case
e si fa una quiete strana sul mondo,
come se la mattina rinunciasse
al moto operoso di scale e passi
denunciandone l’attrito, lo sforzo.
Viene da qui, dal parquet delle camere
sfatte, l’idea di un tempo smorzato
per frattura di luoghi, e tutto va
tra corpi in affitto e premure d’aria.
Fuori la città, la sua scorza dura
quando si scivola in basso, il dispetto
dell’asfalto che cattura. Eppure
amare la vita senza esclusione
di colpi, per un eccesso di zelo.
Sopra un cielo paziente, quella fuga
di nuvole in viaggio. Sta nel coraggio
degli uomini la grandezza di un giorno,
l’ebbrezza irripetibile che muove
le strade, le piazze stese, lì intorno.
Opachi nell’abitacolo chiuso
come gli sguardi dei pesci. Morire
un po’ prima della coda in uscita,
siamo noi quelli, il gesto sui cinquanta
centesimi in resto e la tangenziale
che si apre a ferita. Nell’esclusione
il peccato, chiamarsi fuori posto
nonostante tutto. Accade però
una nostalgia di case, un dato
di prospettive deluse alle spalle
a protezione del mondo. E’ una scia
di angeli buoni, una fatica nobile
di mattoni che interrano radici,
cosi giugno è immobile per saldezza
di terra. Si scompare meglio allora
più in fondo verso le curve a scalare,
e dolce è il moto, quel punto a rilento
di un raro sbiadire a vista frenando.
Nata d’inverno
Guardiamo il mondo una volta, nellinfanzia.
Il resto è memoria
(Louise Gluck)
Sono nata in un giorno di neve,
con le grondaie bianche
e gli uccelli fermi sui rami.
Sono nata d’inverno,
tra fondamenta di sangue e di sudore.
I vasi nei cortili erano gonfi di ghiaccio
e io spingevo dalla carne di mia madre
cercando la spina rossa del mondo,
il segno esatto per cadere
come una cometa dentro la luce.
Nacqui azzurra, e cieca
tre giri di cordone intorno al collo.
Mio padre uscì di casa.
Lasciò l’orma sulle pietre,
nel silenzio di un cielo che pesava dentro ai nidi,
sulle ossa sepolte di piccoli mammiferi.
I muri scintillavano dentro giardini selvatici
con alberi candidi
e radici immobili sotto la terra.
I fantasmi respiravano in fondo agli scantinati.
L’ultima goccia cadeva nel buio e fuori
i campi avevano scordato l’odore delle mele,
il suono dolce che a volte nasce
sulle labbra di un uomo.
Le parole morivano nelle bocche dei pozzi,
lungo le tangenziali bianche della periferia.
Un ritmo tropicale nasceva da lontano,
svaniva dietro il vapore dei vetri.
L’infelicità
L’infelicità è una casa con finestre che danno
sul cortile, ci vuole costanza per abitarla
una serie di gesti che si ripetono, spolverare
i soprammobili o spalancare, spesso, le finestre
e lasciare che vi entri il cielo, la sfrontatezza
dell”azzurro. E’ allora che l’infelicità vibra più forte
davanti allo scomporsi e ricomporsi dei voli delle rondini,
davanti a quella tazzina vuota nel lavello
e ai trasalimenti della cenere nelle correnti d’aria.
E’ li che ripercorri l’intersecarsi delle coincidenze,
quelle inverosimili trame di romanzo,
i millimetri che frantumano un destino,
Marisa, uno scambio banale di cugine e risvegliarsi
intatta nel mattino mentre la tua casa
sparisce in uno schianto e tu non lo senti
ma ti rimane dentro, diventa un rampicante,
una rigogliosa pianta che non ti abbandona più.
Paesaggi familiari
Sullosfondo c’è l’Appennino
le cime più alte innevate
illuminate dal sole.
Sull’altro lato il Montalbano, e voli
in primo piano, di rondine
che è quasi primavera.
Ogni tanto passa un treno.
Un sorriso biondo dall’altalena
agitando la mano lo saluta.
Affacciandosi alla finestra c’è
l’Appennino sullo sfondo, con la neve
e poi giù a precipizio, boschi di
abeti faggi castagni querce lecci pini ed olivi.
Vivai di piante e fiori, pannelli solari.
A volte s’alza in volo un aereo
è bianco e rosso, chissà dove va.
L’Appennino è sempre là, in fondo
e poi case, case a distesa e capannoni
e strade, strade e autostrade.
Tu che di corsa prepari la cena
le bambine giocano sul tappeto.
Nel riquadro della finestra a volte
c’è un aereo una rondine un treno.
A volte manco sempre io.
[…] Testi inediti vincitori 2011. […]
[…] Testi inediti vincitori 2011. […]